Riflessioni critiche su una parata e le lacrime di un bambino

Ho più volte sostenuto che per capire uno sbirro ci vuole sempre un altro sbirro. Lo affermo con convinzione, perché solo chi indossa una divisa o chi come me l’ha indossata per lungo tempo può capire le emozioni che dietro a quella corazza si celano. E credetemi sono tante le emozioni degli uomini in divisa e molte anche contrastanti.

Ho indossato per un lungo periodo della mia vita una divisa, nel mio caso è stata per lo più una tuta da volo (ed i compagni di volo che ho perso non sono stati affatto pochi), e le istanze dei miei colleghi, anche quelle che erano difficili da condividere ed ancor meno da comprendere, ho sempre cercato di capirle e a volte anche di assecondarle e rappresentarle. Da sbirro, ho sempre cercato di capire le motivazioni che erano alla base delle loro manifestazioni, che a volte erano anche le mie. Comprendevo che a volte erano delle istanze che venivano da un disagio lavorativo e tutte avevano un fondo di verità e di esigenze inappagate.

Da qualche tempo vedo svolgersi manifestazioni che ai miei tempi neanche lontanamente pensavamo di mettere in campo, ma i tempi mutano e da ex sbirro cerco di capirle, di indagarne le ragioni. Una di queste è la consuetudine di rendere omaggio, mediante sfilate di automobili con i colori di istituto a sirene spiegate, a qualcuno o a qualche categoria di persone. Insomma, si tratta di parate, di una sorta di “inchino”, dal sapore quasi spontaneo, a tutta sirena, messe in scena (a favore di telecamera, magari in diretta social, altrimenti è come non averla fatta), come a voler esorcizzare un disagio, un dolore, una perdita, un impegno per gli altri. Una sorta di grido di allarme che pare voler dire: siamo qui, siamo solidali con questa o quella persona, con questo o quel gruppo. Mi colpiscono, mi incuriosiscono ed a volte le comprendo, anche, se molte di queste manifestazioni, che mettono in fila una decina di autopattuglie per rendere omaggio a qualcuno, proprio non riesco a farmele piacere. È un po’ come le canzoni ai balconi, mentre gli altri muoiono, una parte di me, quella emotiva, le condivide, mentre l’altra parte, la più razionale, le respinge. Una cosa sono le recenti manifestazioni di questo tipo per rendere, per esempio, omaggio ai medici, agli infermieri e agli operatori sanitari per il lavoro svolto in questo periodo di pandemia, altra cosa sono altre manifestazioni che nel tentativo di omaggiare finiscono per recare ulteriore dolore.

Di recente, sui canali social, è stato diffuso un video, un raccapricciante video, che ho scelto di non divulgare, per rispettare il dolore e la fragilità delle persone. Si tratta di un video straziante, ma non per questo mi esimo dal commentarlo, per dire come la penso a proposito di certe ostentazioni.

È sera, un quartiere periferico, un budello di strada tra due file di palazzi, autopattuglie, lampeggianti accesi e sirene spiegate, pianto bambino, urla di dolore di madre, di moglie ferita e l’immancabile telecamera che riprende lo strazio. No, è troppo per contenere lo sdegno, almeno il mio.

In questo video, diventato virale nel giro di pochi minuti, si vedono delle auto della polizia giungere silenziose sotto l’abitazione del giovane agente di Polizia Pasquale Apicella, ucciso a Napoli da alcuni rapinatori nel tentativo di fermarli.

Le riprese sono effettuate da un balcone (immagino sia proprio quello dell’abitazione del giovane agente), mentre una voce di donna che dice di essere la zia, rivolta ad un bambino o bambina, dice di mettersi sulla sedia per vedere, invitando il piccolo a guardare. A guardare cosa? Il piccolo, vedendo giungere le auto che sa essere quelle dentro alle quali lavorava il padre, chiede, attonito e con la curiosità dei bambini: «dove sta babbo?», mentre la voce di un uomo, non celando un certo entusiasmo per ciò che la telecamera sta riprendendo, dice: «Ora faranno il saluto militare». Ed ancora la voce di donna che, piangendo e rivolta al bambino, dice: «Hai visto a zia? Sono venuti a salutare a papà». Poi ancora la voce di uomo incita il bambino a fare un applauso ai colleghi di suo padre, mentre un attimo dopo, dallo stesso balcone, si sente il battito delle mani che produce un fragoroso applauso. Quando, infine, i poliziotti azionano il dispositivo di allarme, facendo ululare le sirene e disponendosi sull’attenti a porgere il saluto alla visiera, si sente ancora più forte il pianto disperato del bambino e la voce dell’uomo che, forse in un attimo di resipiscènza, rivolto alla donna dice «portalo dentro», contemporaneamente continua a incitare il bambino a battere le mani. E poi ancora pianti, urla strazianti di una donna e di un bambino.

Ecco, ci sarebbero tanti modi per rendere omaggio a chi muore, ma questo che vi ho descritto, per me è stato proprio il peggiore. Davanti al pianto straziante di un bambino e di una madre, quella parata, prima ancora della leggerezza della zia e credo anche di quello che si presume essere lo zio che lo tenevano sul balcone ad assistervi, non ha prodotto altro risultato se non quello di aggiungere strazio a strazio, dolore a dolore. So poco di psicologia e di traumi psichici, ma quel poco che ricordo dei miei studi in materia mi fa pensare che nella psiche di quel piccolo rimarrà profonda anche questa ferita.

Si, lo immagino, anzi lo so che quella sorta di parata è stata animata dal più profondo rispetto per la perdita del collega caduto, un tributo offerto con l’amore nel cuore dei colleghi dell’agente Pasquale Apicella. Una parata, quindi, voluta con le migliori intenzioni, ma che per me andava evitata. Andava evitata perché oltre ad apparire come un’ingannevole consolazione, ha determinato, insieme alle urla della madre, un danno che per lungo tempo rimarrà impresso nella memoria di quel bambino. E questo lo si poteva prevedere. Lo si poteva prevedere, perché al di là dell’imprudenza e la leggerezza di chi ha realizzato e diffuso quel video, il fatto in sé resta. A volte assumiamo comportamenti e prendiamo decisioni in perfetta buona fede, senza renderci conto dei danni che possiamo procurare agli altri.

Bene la sobrietà del Presidente del Consiglio, che avrebbe telefonato alla vedova e bene la solidarietà del Capo della Polizia che si sarebbe recato direttamente a casa del giovane agente ucciso, ma meno ostentazione, in questo caso, sarebbe stata necessaria, perché quel poliziotto non sarebbe certamente tornato in vita dopo l’inutile e dannosa esibizione. Ci sarebbe stato tempo per rendere omaggio nelle dovute forme, nel dovuto rispetto anche di chi è restato, senza contribuire a recargli ulteriori traumi, senza violare oltremodo la fragilità di quella donna e di quel bambino.

di Paolo Miggiano

 Immagine di Adrian Pingstone