“Faccia da mostro”, un mondo parallelo in cui si muovono mafiosi, servizi deviati, Gladio, donne misteriose e una lunga scia di sangue

Milano. Leggo “Faccia da mostro”, un libro scritto dal vice direttore de L’Espresso, Lirio Abbate e penso, senza per questo peccare di presunzione, che questa poteva essere parte della mia storia. Si, perché da questa storia sono, inconsciamente, scappato tanti anni fa. “Faccia da mostro”, infatti è il racconto di oltre cinquanta anni di storia criminale italiana e siciliana in particolare.

Nel 1973 la vita, a diciotto anni, già mi aveva detto “arrangiati” e mi arruolai nel corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza e nel 1975, dopo qualche giro in Sardegna, nella capitale e in Calabria, approdai al raggruppamento guardie di P. S. di Palermo, nella caserma Pietro Lungaro. No, a quel tempo non fui impiegato in nessuna squadra speciale, ma al reparto mobile a dare supporto alle varie attività di polizia e di mantenimento dell’ordine pubblico. Ma le aspettative di un poliziotto di appena vent’anni come me erano quelle di arrivare un giorno alla squadra mobile, alla catturandi, ai servizi investigativi, alla ricerca dei latitanti, alle scorte dei magistrati (poche all’epoca). Erano le aspettative, le aspirazioni di tutti noi giovani poliziotti a cui il reparto mobile stava un po’ stretto. E, nutrendo quelle aspettative, guardavamo, con ammirazione, al grande portone di accesso agli uffici della squadra mobile, dove spesso portavamo qualcuno che avevano fermato durante il nostro servizio.

Guardando sotto l’arco di quel portone o varcandolo, non era difficile imbattersi in quegli uomini che consideravamo un simbolo della lotta alla criminalità organizzata. Sotto quel portone spesso si incontrava il volto coi baffi di Giorgio Boris Giuliano, il poliziotto che conosceva bene l’inglese e che stava mettendo le mani sui traffici della “cosa nostra” americana. Lui sì che ci metteva soggezione, anche un suo gentile buon giorno era per noi una sorta di promozione. Fu ucciso nel mese di luglio del 1979 da un killer solitario. Bruno Contrada era già abbastanza antipatico allora, almeno a me, e qualche volta si faceva vedere un altro fine investigatore, Vittorio Vasquez, quello che cercava davvero i latitanti. Poi, ogni tanto, sotto quel portone ad arco, finiva che ci si imbatteva in un personaggio strano, capelli lunghi, lisci, stopposi, malvestito e con una vistosa cicatrice sul volto. Era Giovanni Pantaleo Aiello, ma di lui erano in pochi a parlarne bene già all’epoca. Ed il libro di Lirio Abbate proprio su questo personaggio getta una luce, accende dei riflettori.

Poteva essere parte della mia storia, dicevo, quella tracciata nel libro di Lirio Abbate. Poteva essere la mia storia se la passione per il volo del mio amico e collega Carmelo non mi avesse portato via nel 1979 da Palermo, ma quella città e quelle vicende che lì accadevano e sono continuate ad accadere, non ho mai smesso di seguirle e di studiarle. Era troppo evidente il sangue della guerra di mafia che avevo visto scorrere in quella città per scrollarmelo di dosso e con Palermo sono rimasto sintonizzato.

Ora che ho questo libro tra le mani è come se ripercorressi un pezzo di storia della mia vita, mentre altri come me la vita lì, in quella città infuocata dai mitra e dal tritolo e non soltanto dal sole, l’hanno persa davvero e forse noi fummo solo più fortunati ad andar via.

C’era un mafioso, uno ‘ndranghetista, di nome Nino Lo Giudice che davanti al magistrato che lo interrogava parlava di Giovanni Aiello, dicendo: «È un cane. È un uomo cane … un uomo fuori dalle regole». Lo Giudice, in quel colloquio investigativo aveva deciso di parlare, di vuotare il sacco sul doppio gioco di un ex poliziotto passato dall’altra parte, ma nel giro di poche ore cambiò idea, fuggì dalla località protetta dove risiedeva e sparì nel nulla per un po’ di mesi, prima di essere riacciuffato dalla polizia. Doveva portare al magistrato delle fotografie di questa “faccia da nostro”. Non le porterà mai, Aiello era protetto da qualcuno che stava molto in alto e con lui e con quelli che lo proteggevano non si poteva scherzare e Lo Giudice lo sapeva o qualcuno glielo fece capire e così chiuse la bocca e sparì.

Giovanni Pantaleone Aiello, colui che Vincenzo Agostino - il padre di Nino Agostino, l’agente di polizia ucciso il 5 agosto del 1989, insieme alla sua giovane moglie Ida Castelluccio – gli affibbiò il nome di “faccia da mostro”, è il protagonista di questo libro. Un poliziotto fuori dalle righe sin dagli anni in cui l’ho conosciuto io, ma la sua vicenda ben presto si colloca fuori dagli schemi e fuori dalle regole. Lirio Abbate ne traccia un approfondito profilo e lo intercetta in molti luoghi in cui non doveva esserci, o perlomeno se ci doveva essere doveva esserci per altre ragioni e non per affiancare la mafia, a depistare e spesso, con ogni probabilità, anche per commettere delitti.

Faccia da mostro era nato nel 1946 a Montauro, un paesino nei pressi della costa ionica della Calabria e verso la fine del 1964 si arruolò nelle fila dell’allora corpo delle guardie di pubblica sicurezza. Nel 1967, in circostanze poco chiare, in Sardegna un colpo che sarebbe partito dal suo stesso fucile gli sfregiò la mandibola destra, provocandogli una vistosa cicatrice. Nel 1974, dopo un periodo di convalescenza, venne assegnato alla squadra mobile di Palermo, dove incontrò Bruno Contrada che la dirigeva. Nacque un sodalizio tra i due che durerà per l’intera parabola della sua vita. Alla squadra mobile di Palermo prestò servizio fino al maggio del 1977, quando per motivi di salute sarebbe stato riformato e collocato fuori dai ranghi dalla polizia. Si dice che era diventato un pensionato, ma a quel tempo dalla polizia si poteva essere messi in pensione solo dopo aver raggiunto diciannove anni, sei mesi e un giorno di servizio, altrimenti non avevi diritto ad alcuna pensione. E questo mal si concilia con il possesso di titoli di Stato di circa un milione di euro che le indagini hanno appurato possedesse. Un po’ troppo per uno che vive in una baracca su una spiaggia calabrese, facendo il pescatore.

Da quel momento in avanti, Lirio Abbate, nella sua accurata indagine giornalistica, lo inquadra nel ruolo di doppiogiochista, lo rintraccia quasi ovunque ci sia un delitto di una certa importanza. Tra le righe di “Faccia da mostro” lo troviamo sullo scenario dell’omicidio del vice questore Ninni Cassarà e dell’agente Roberto Antiochia, in quello di Calogero Zucchetto, stretto collaboratore di Ninni Cassarà, del commissario Peppe Montana, dell’agente Nino Agostino e di sua moglie Ida, nel sequestro e l’uccisione del collaboratore del SISDE Emanuele Piazza che aveva scoperto il tradimento di alcuni funzionati di polizia e dei servizi segreti, nella scomparsa del vigile del fuoco Gaetano Genova, ritenuto confidente di Emanuele Piazza. La sua faccia deturpata compare anche nell’omicidio di Claudio Domini, un bambino di undici anni che aveva visto troppo e se vedi una faccia così non te la scordi. Le sue orme, inspiegabilmente, le troviamo persino a Genova in occasione del sequestro del giudice Sossi. Che ci faceva a Genova un semplice agente, con un profilo caratteristico di poliziotto “inferiore alla media”, con nessun incarico speciale in materia di indagini sulle brigate rosse, si chiede Lirio Abbate. Un altro mistero.

Nel suo ruolo di doppiogiochista, il vice direttore dell’Espresso lo rintraccia nel Vicolo Pipitone a Palermo, un luogo dove, sotto la protezione di certe divise del disonore, si svolgevano riunioni di pericolosi latitanti mafiosi e certi uomini dei servizi e della polizia. Un doppio gioco dell’amico dei mafiosi che si scontra con quello che l’autore definisce il triplo gioco di Nino Agostino e Natale Mondo, che al contrario di faccia da mostro ai mafiosi portavano notizie cattive, per riuscire a prendere quelle buone, per poterli catturare.

Nelle duecentocinquanta pagine di questo saggio di storia criminale, troviamo “faccia da mostro” che traffica in armi con la ‘ndrangheta calabrese e che si affaccia negli attentati eccellenti.

“Faccia da mostro”, naturalmente non poteva mancare sugli scogli dell’Addaura, quando qualcuno tentò di uccidere Giovanni Falcone ed il magistrato svizzero Carla Del Ponte e persino a Capaci e in via D’Amelio, anche se per queste due gravi vicende come per altre la magistratura ne chiese l’archiviazione.

In questo saggio, intorno a Giovanni Aiello si muove un mondo parallelo, si muovono mafiosi, servizi deviati, persino la struttura di Gladio, donne misteriose e una lunga scia di sangue di uomini dello Stato onesti che sono stati ammazzati.

Giovanni Aiello è morto d’infarto il 21 agosto del 2017, su una spiaggia calabrese, dove pare vivesse, facendo il pescatore e da dove, secondo le sue versioni, non si sarebbe mai mosso, ma Lirio Abbate, con la sua inchiesta, lo rincorre e lo rintraccia ovunque ci sia un delitto importante.

“Faccia da mostro” è la storia di un fantasma e insieme l’epopea di uomini dello Stato che non si sono voltati dall’altra parte, ma anche di coloro che hanno trovato più conveniente stare dalla parte sbagliata e Giovanni Aiello, al di là delle sentenze giudiziarie, è stato certamente uno di questi ultimi e Lirio Abbate ce lo fa scoprire in una documentata e scrupolosa inchiesta, che attingendo alle fonti, va oltre gli atti giudiziari, ricorre all’acume investigativo di chi con la cronaca criminale ci lavora da sempre.

di Paolo Miggiano