Ekatomére. Racconti tra Decameron e pandemia

Sintesi letteraria di un tempo fermo

Caserta, 13 novembre 2020. Dopo il successo delle nostre “Istanze poetiche”, annunciamo l’uscita di “ Ekatomére. Racconti tra Decamerone pandemia”, il secondo libro in catalogo di Terra Somnia Editore (la casa editrice che abbiamo costituito alla vigilia del lockdown), un’antologia di vari autori curata dalla salentina Paola Bisconti.

Ekatomére, dal greco “Ekato” (cento) e “Eméres” (giorni), da oggi è disponibile in molte librerie d’Italia ed in particolare in quelle di Caserta, Napoli e Lecce, luoghi di provenienza della maggior parte delle nostre autrici e dei nostri autori, oppure richiedendolo direttamente all’indirizzo email della casa editrice Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. .

Stava per finire l’inverno e, con il virus del Covid19, arrivò il lockdown. Da un giorno all’altro, le strade si fecero deserte, i negozi furono chiusi, la polizia, con gli altoparlanti gracchianti invitava, a non uscire di casa, i parchi furono sbarrati. Non sapevamo quanto sarebbe durato. Alle porte della primavera ci volevano convincere che tutto sarebbe andato bene. L’importante era stare buoni e rispettare le regole e molti, per esorcizzare le paure, si misero anche a cantare dai balconi. Il suggestivo selciato bagnato di Piazza di San Pietro a Roma ci sembrò il sagrato di un mondo fermo, attraversato da un uomo solo vestito di bianco. Venezia era senza acqua alta, ma insieme a Firenze, Milano e altre grandi città, era rimasta anche senza le persone, senza i turisti. Chiusero quasi tutte le attività commerciali, tranne quelle di prima necessità, tante persone rimasero senza un lavoro, qualche sussidio dello Stato, arrivato pure tardi, e si sperava che finisse. Anche noi di Terra Somnia (la casa editrice che avevamo costituito pochi giorni prima) speravamo che durasse poco e decidemmo di lasciarne traccia di quel tempo fermo, imposto, di attesa.

Lanciammo la nostra idea affinché gli scrittori lo raccontassero quel tempo, anche con la leggerezza che ritenevamo essere necessaria. Volevamo che oggi, come durante la peste del 1348 a Firenze, gli scrittori ci raccontassero le loro novelle. Ci hanno scritto in tanti e li ringraziamo tutti. Tra questi ne abbiamo selezionati trentaquattro, una rappresentanza simbolica di quella onesta brigata che, come nel Decameron del Boccaccio, ci ha raccontato i giorni di questa nuova pestilenza.

In estate, mentre noi lavoravamo alla selezione dei racconti che ci erano pervenuti, ci avevano fatto credere che fosse finita; un generalizzato “liberi tutti” che ci ha fatto abbassare la guardia. In preda alla necessità del divertimentificio, tutti in vacanza sulle spiagge, meglio se nostrane, ma qualcuno ha preferito volare anche all’estero. E mentre irresponsabilmente i giovani si assembravano nelle piazze della movida, su qualche isola del Pacifico pare fossero finiti anche coloro che avrebbero avuto il dovere di programmare il rientro, organizzare i mezzi di trasporto, dotare gli ospedali di quanto necessario ad una quanto mai scontata ricomparsa del virus. Il risultato è stato che ora mentre il nostro Ekatomére è pronto per raggiungere le vetrine delle librerie, trovandole probabilmente ed inesorabilmente chiuse, il morbo è ancora tra noi e più virulento di prima e, come un corvo, volteggia sulle nostre vite. Siamo, quindi, nella cosiddetta seconda ondata di questa pandemia che viene da lontano e che sembra permanere nelle nostre città.

In ogni caso, il nostro Ekatomére lo abbiamo voluto considerare un’opportunità che ci ha consentito di raccogliere le idee, le suggestioni, le riflessioni su un tempo che è stato certamente diverso da quello che il futuro incerto ci riserverà, tutto da immaginare, tutto da vivere.

La nostra allegra brigata, composta dai trentaquattro autori, guidati da Paola Bisconti, con la sensibilità che l’ha caratterizzata, ha aperto delle finestre sul quotidiano della propria vita. E così, il potere salvifico della scrittura, nel suo fluire di prosa, diventa terapia del tempo non solo per gli scrittori, ma anche per chi leggerà i loro racconti.


In un momento in cui forse c’erano più motivi per arrendersi che per continuare, trentaquattro scrittrici e scrittori, provenienti da ogni area geografica del Paese, hanno dato vita ad altrettanti racconti che hanno guardato alla pandemia da Coronavirus dai diversi luoghi di residenza e dai loro differenti punti di vista, facendo emergere paure, preoccupazioni, apprensioni, ma anche speranze, voglia di vivere e di amare. Il lockdown è stato e, per certi versi, continua ad essere un tempo di attesa, ma nei racconti di Ekatomére le riflessioni si congiungono, in un unico filo conduttore, con le storie familiari, dei giovani, degli anziani, degli amori, della natura. Come in uno specchio delle paure e delle ossessioni del nostro tempo, nei racconti di Ekatomére ci sono le storie di un periodo della nostra vita vissuta nella costrizione, chiusi nelle nostre case, ma con la libertà della parola, che ci auguriamo arrivi ai lettori con tutta la sua intensità, il suo significato e la sua forza. Siamo convinti che nelle storie degli altri si possono trovare le risorse per affrontare le nostre.

Con i nostri autori, abbiamo percorso la penisola in lungo e in largo e abbiamo incontrato persone che hanno scelto di dedicarsi anche alla parola scritta per esorcizzare il momento ed ora, come fanno i naviganti, proviamo a fare il punto della situazione della nostra rotta e dove ci conduce. Vediamo, quindi, chi sono, da dove vengono e soprattutto cosa raccontano le nostre autrici e i nostri autori in Ekatomére. Innanzitutto i ragazzi diPLAM Collective, con la giovane Arianna Montinaro, che da Ferrara curano la grafica della nostra casa editrice e, quindi, anche l’accattivante copertina di Ekatomére, attraverso la quale esprimono tutta la loro geniale creatività. Poi, a confermare l’asse culturale lungo il quale Terra Somnia opera (Salento – Caserta – Napoli), la collocazione geografica degli autori ci dice che ben nove provengono dalla provincia di Napoli (Vincenza Alfano, Vincenza D’Esculapio, Mariachiara Di Donato, Mauro Galliano, Daniela Merola, Gabriella Miele, Alessandro Polidoro, Maria Rosaria Selo, Stefania Squillante), seguiti dagli otto dalla provincia di Lecce, la stessa da cui proviene la curatrice Paola Bisconti (Marianna Burlando, Marcello Buttazzo, Franca De masi, Matteo Leo, Brizio Montinaro, Giancarlo Nicolaci, Maria Luisa Petruccelli, Alessandro Romano), e sette da quella di Caserta (Michle J. Ciervo, Valerio Finizio, Alessia Guerriero, Sergio Ievoli, Marilena Lucente, Paolo Miggiano, Daniela Volpecina). Seguono, poi quelli che ci hanno raggiunti dalle provincie di Foggia (Pasquale Braschi e Alfonso Santamaria) e di Barletta – Andria – Trani (Giuseppe Lagrasta ed Enza Piccolo), per finire a coloro che ci hanno voluto scrivere dalle province di Aosta (Giorgio Sapegno), Brescia (Manuela Romele), Roma (Alessandro Pernini), Genova (Andrea Medicina), Venezia (Cristiano Massaro), Salerno (Francesco Abate).

Veniamo ora, seppur accennando brevemente, ai contenuti espressivi, alle parole che gli autori ci hanno regalato di questo tempo di paura e di speranza. Ed ecco che Ekatomére, dopo l’introduzione della curatrice Paola Bisconti (che ci parla del potere salvifico della scrittura, quale più alta forma di dignità), si apre conLa fuga, il racconto del primo autore, Francesco Abate, che negli innaturali ed angoscianti silenzi di una città svuotata ci conduce nel racconto di un uomo che finalmente libero corre nudo per la città deserta, soddisfacendo il suo bisogno di diversità.

Procedendo, in un ordine rigorosamente alfabetico, ci imbattiamo in una esilarante vicenda raccontata in Tutta questione di testa dalla nota scrittrice napoletana Vincenza Alfano, dove, in un linguaggio espressivo accattivante e ritmato, come è nello stile dell’autrice, il protagonista, da uno spoglio terrazzo, sul quale non cresce neanche una pianta di basilico, si sofferma a scrutare la vita oltre le finestre delle abitazioni situate di fronte al suo appartamento, dove vive con una inflessibile teutonica consorte, che dall’alto della sua professione di avvocato penalista, si ostina a non considerare lavoro quello del marito che recensisce libri. Continuando ad osservare la vita nelle case degli altri, non saprà mai chi è quella donna che intravede dietro alle finestre dell’appartamento di un certo Mister X.

Continuando a sfogliare Ekatomére, arriviamo aPasquale Braschi, che con il suo Isolamento Covid-19 ci racconta di una Cerignola sbarrata, dove anche i gatti, probabilmente morti da un amore non ricambiato, sembrano essersi estinti e la vita virtuale, in un pianeta moribondo, si trasforma in una enorme sala d’attesa, con alle pareti della casa la morte. Poi arriva un passero solitario a ricordare che la vita non è cessata.

Marianna Burlando , in una narrazione dove la virgola è considerata la porta girevole del pensiero e l’apostrofo una parentesi rosa, dà voce ad una donna centenaria, inchiodata ad un letto da due lustri, che chiede di assentarsi dalla vita e, intanto che escogita qualcosa, trasforma l’hashtag #coronavirusnontitemo (che è il titolo del racconto) in #ipocrisiavaffanculo.

Con Ritornerà il tempo delle rose di Marcello Buttazzo, attraverso i versi di Dino Campana, di Dario Bellezza e le strofe di Claudia Ruggieri, è auspicato il ritorno all’aperto a respirare sorsi di vita.

È un originale e interessante dialogo con la morte, Storia di un paese chiamato “Coronavirus ”, il racconto di Michele J. Ciervo. In un piccolo paese dell’Irpinia dove gli abitanti sono piuttosto longevi e dove le notizie arrivano sempre con un certo ritardo, all’improvviso giunge anche il morbo e ancor prima la notizia della sua pericolosità. La nomea prima del guerriero, la paura prima del danno, la paura degli effetti prima del problema. Ma ad un certo punto va a far visita agli abitanti del piccolo centro un vecchio signore che si prende beffa di loro. Era la morte che andava a ricordare che l a vita è un grande dono che trova il suo equilibrio nelle scelte di ogni essere umano . Una splendida lezione a rammentare che della vita non ci si può ricordare solo al cospetto con la morte, perché essa, prima o poi, ce ne chiederà conto.

Ispirata al richiamo boccaccesco, si presenta davvero come un’allegra brigata il gruppo di amici raccontato inAmici miei da Vincenza D’Esculapio. Davanti alla pizzeria di Michele a Napoli, quattro donne (Tosca, Fiammetta, Eleuteria e Regina) e quattro uomini (Bernardo, Otto, Ugo e Serpico), organizzano di partire, chitarra in spalla, per un casale nelle Marche, prima che il virus arrivi a travolgere anche le loro vite. A guardarli dall’esterno sembravano tutti presi dalla smania di scappare via, ma da chi? Dalle loro vite o da quelle a cui erano incatenati? Queste sono le domande che l’autrice pone nel racconto il cui epilogo, naturalmente non vi sveliamo, se non che “era de maggio” quando tutto finì.

Oggi è Cavallino, un piccolo centro alle porte di Lecce. Nel 1656 era Caballino e fu colpito da una pestilenza venuta da lontano come tutte le pandemie. Il racconto si intitolaPandemia, sorte mia! Ed a scriverlo è Franca De Masi. L’esclamazione “sorte mia!” che l’autrice fa precedere dalla parola “pandemia” è una sorta di pianto, una litania antica che ritroviamo nelle tragedie greche ed in particolare in Troiane di Euripide dei cui insegnamenti noi salentini in particolare siamo ancora fortemente influenzati. Franca De Masi teme che la pandemia da Covid19 possa diffondersi anche a Cavallino e, come accadde circa quattrocento anni prima, mietere vittime; teme e si dispera, interrogandosi e piangendo la sua sorte e quella dei suoi familiari, in particolare del suo nipotino. È un lamento che sarà interrotto dall’arrivo di un disegno che il piccolo Francesco aveva dedicato al Dantedì con scritto: E uscimmo a riveder le stelle. E un barlume di speranza accese il suo cuore.

Mariachiara Di Donato è certamente la più giovane della nostra allegra brigata e con il suo La frattura del tempo ci conduce ad avere la consapevolezza che a volte la vita ci dà uno scossone forte per metterci nelle condizioni di provarne uno ancora più intenso, tale da farci vibrare il cuore.

È quasi un thriller Una manciata di malintesi, il racconto al limite del fantasioso del casertano Valerio Finizio, che tiene con il fiato sospeso fino all’ultima riga. Un rifugio costruito negli anni in attesa che arrivasse il pericolo, quello atomico e, isolato dal mondo, non sapeva di una nuova apocalisse e del pericolo che oggi lo avrebbe potuto colpire. Spionaggio, servizi segreti, informazione e contro informazione e il mondo, in un conto alla rovescia apocalittico, era nelle mani di un clochard e a causa sua poteva pure finire. Era solo questione di una manciata di bugie e di malintesi.

Mauro Galliano nel suo Rocca (forte) – 1348 racconta di Milano e di una garçonnière dove due amanti, Andrea e Fiamma, si ritrovano. Andrea e Fiamma portano i nomi di due personaggi del Decameron di Boccaccio e, come nel 1348, scappano dalla nuova peste. Sette giorni di attesa e un fermaglio per riconoscerla e il tempo che restava per amarsi nella loro roccaforte.

Affinché non lo cancelli il vento è il racconto che ci regala la nostra Alessia Guerriero, conducendoci per le strade di una piovosa Parigi sulle tracce di un’appassionante e struggente storia d’amore tra Gustave, un giovane studente della Sorbonne e Juliette, una donna di mezza età incontrata per caso in metropolita e il cui sguardo era rimasto impresso nella mente e nel cuore del giovane Gustave. Mentre un nemico silenzioso avanza, con sullo sfondo la tragedia di Racine, l’amico del cuore di Gustave, prende forma un amore coinvolgente con cui il caso aveva giocato più volte, nascondendosi come un infante dispettoso e irruento fino alla resa, fino a farsi trovare . Sulle note di Edith Piaf, la nostra Guerriero affronta un tema da molti ancora considerato scabroso, l’amore segreto e osceno di un giovane per una donna matura.

Con Sergio Ievoli, facciamo un salto indietro nel tempo di ben quarantaquattro anni, nel 1976, periodo in cui ambienta il suo Coronavirus 2020 – Seveso 1976: per alcuni la vita allo specchio , ispirato dalla cronaca di fatti realmente accaduti ai quali lo stesso autore prese parte quale militare preposto a garantire la sicurezza dei cittadini del territorio. Uno spaccato che mette in parallelo il nostro tempo con l’esplosione del sistema di controllo del reattore dello stabilimento della società Icmesa, che provocò lo sprigionamento di una elevata concentrazione di diossina in una vasta zona comprendente i territori dei comuni di Seveso, Meda, Cesano Maderno, Limbiate e Desio. Sergio Ievoli, fa giustamente osservare che: Quella volta, però a differenza di oggi, la situazione era inversa, una sorta di realtà allo specchio. Oggi non si può uscire di casa per non incontrare altra gente e impedire il contagio. Allora, invece, non era concesso tornare a casa perché il territorio era stato infettato: fare rientro a casa equivaleva ad ammalarsi.

Federico, i nonni e le barchette di carta è una favola molto bella raccontata da Giuseppe Lagrasta. Il protagonista del racconto è Federico, un ragazzo di tredici anni che di notte scappa di casa e in attesa di giungere in quella dei nonni, si rifugia, come Cosimo Piovasco di Rondò, “Il Barone Rampante” di Italo Calvino, sui rami di una quercia, dove trascorrerà la notte appollaiato. Federico ha la testa tra le nuvole perché sogna di volare e vuole fare il pilota, guidare gli aerei, ma all’improvviso scopre che c’è una parola formata da due vocali (O e I) e tre consonanti (C, V e D) ed un numero (19) di cui la gente comincia ad avere paura. Lui non le teme, ma ha paura per i nonni e vuole raggiungerli, affinché il nonno pescatore gli racconti la storia di quell’ombra che lo seguiva quando molto più giovane era in barca a pescare. Quell’ombra era il pesce chiamato Colibrì che lo aveva seguito per molto tempo e salvato quando il mare era in tempesta. Ascoltata la favola del nonno pescatore, Federico decide di scriverla e poi comincia a costruire delle barche di carta colorate che lascia scivolare sull’acqua che dopo il temporale scorre ai bordi della strada.

Il frinire delle anarchiche cicale e i voli di colombi che tagliano l’aria intorno all’imponente campanile del paese, che si staglia sul mare, equilibrato rapporto tra uomo e natura; un uomo sulla cinquantina che cerca di scovare indizi sull’ennesimo complotto per stabilire un “Nuovo ordine mondiale”; una giovane donna che finiti gli studi si interroga sul presente e sul suo futuro; un bambino che sulla spiaggia, scavando fosse e costruendo castelli, pensa che ci sarà sempre un drago da combattere e, una volta superato, sarà la volta dei pesci giganti . Sono le figure di un’estate guardata dall’alto del volo (che immaginiamo essere di un famoso gabbiano) che Matteo Leo ci restituisce in Fermi sulla soglia del tempo, un racconto intriso di suggestioni.

E veniamo a Pàtemo, il racconto di Marilena Lucente, la scrittrice di origini pugliesi, stabilitasi a Caserta. La citazione, tratta da Another day in paradise di P. Collins, che dà l’incipit al suo racconto che con coraggio pone al centro un tema molto delicato e dibattuto, quello del rapporto tra generazioni e soprattutto tra padri e figli, è preludio ad una dimensione in cui è davvero possibile stare un giorno in più in paradiso, accettando l’altro così com’è. Non vogliamo svelarvi molto, ma Pàtemo è davvero un racconto incentrato sulla diversità e sulla ricchezza delle differenze: una coppia di genitori innamorati, il figlio e il suo amico Andrea, un dialogo tra padre e figlio che alla fine si rivelerà più semplice di quanto non sembri, restando un giorno in più in paradiso.

In perfetto stile Boccaccesco si presentaIl senso dell’alba del sagace veneziano Cristiano Massaro. Il senso dell’alba è il racconto di un uomo che all’alba, mentre si interroga se il domani sarebbe stato migliore, si sorprende a guardare, con amore e rimpianto, la sua donna ammaliatrice e sensuale e invero timida, sorridente ma in fondo malinconica e irrisolta , mentre ancora gli dorme accanto. Amava quel corpo armonioso ed elegante e voleva sentire la musica di lei, il sospirare e l’ansimare, le parole dolcemente lascive che le affioravano dalla mente e galleggiavano colorate nella voce, un attimo dopo l’altro . Un racconto che si dipana nel delicato fluire dei sensi di un uomo e una donna innamorati e desiderosi dei loro corpi e di continuare a volersi.

Anche Nel buio, il racconto del genovese Andrea Medicina, è una storia d’amore. Una storia d’amore clandestina che rimane imprigionata dentro alle ansie e alle paure che la nuova peste, con la sua “apocalisse” (Armageddon) ha generato. Gli incontri clandestini, accompagnati dal profumo di balsami esotici, erano continuati anche nei giorni della morsa del lockdown. Erano continuati fino a quando lei non avvertì di sentirsistrana, nuda, come in effetti era davanti a Lui, ed imbarazzata. Il suono di uno strappo e fuggi. Da dove lo scopriremo leggendo il racconto fino in fondo, fino a quella porta che chiudendosi scricchiolava e che lui, sistematicamente, dimenticava di oleare.

Il rivelatore spione , di Daniela Merola è il tentativo di non farsi sopraffare da una condizione che imprigiona le persone per un periodo più o meno lungo alla quale la protagonista non intende affatto arrendersi.Resistere, resistere, resistere, ma civogliono nervi d’acciaio a guardare in faccia ciò che il rivelatore spione, inebetito e sfinito, ti presenta davanti nei giorni di chiusura forzata, facendoti scoprire che a salvare l’umanità può essere il lievito madre che, riempiendo le pance di pizze e di pane, colma le ansie più subdole, quelle striscianti che ci hanno avvicinato alle bestie. Ma il rivelatore spione è un inganno, fa osservare Daniela Merola, un inganno mortale al quale non bisogna cedere.

Luca, il bambino che Giulia aveva partorito, gattonava per la casa. Paolo, il marito, guardava distrattamente la televisione. Questa è la cornice del racconto Otto settimane e cuori rossi di Gabriella Miele. Giulia, che nel frattempo era fuggita altrove, rischiò di perdere il controllo quando, tranquillamente intenta a sbucciare una mela, fu travolta da una notizia sconvolgente. Le mancò l’aria, la vista le si offuscò dalle lacrime. Paolo, il marito, la rassicurò che ne avrebbero discusso insieme e che il lockdown lo avrebbero trascorso lì nella loro casa dove non gli mancava nulla. Ma se a Paolo non mancava nulla, a Giulia mancava tutto e man mano che passavano le settimane continuava a morire. Per lei il vero vivere era fuori da quella casa. Ad un certo punto, mentre sul telefonino di Giulia continuavano a giungere messaggi di poche righe e cuori rossi, accade qualcosa che percepì come il segno di un passaggio e forse coglierà l’attimo.

L’amore che resta di Paolo Miggiano ci restituisce, nitida, la fotografia dell’amor cortese, vissuto alle porte di Firenze in un luogo fisico che ben presto diviene memoria; memoria di una passione antica, quanto antico è il mondo. Il racconto si apre con la visione incantata di un nido d’amore, con il ritratto di lei, nuda, che si mostra agli occhi dell’uomo che ama, posando immobile come un calco di marmo; lei possedeva la grazia di una dea antica. Nel giorno della loro prima volta, fanno ingresso in un suggestivo palazzo rinascimentale, respirando le atmosfere della quinta giornata descrittaci dal Boccaccio. Nulla sarà più come prima dopo quell’abbandonarsi reciproco e insaziabile. Per loro non c’era il canto dell’usignolo ad annunciare la vita; per loro c’era solo il buio che avanzava sinistro. Ma se nel Cantico si legge che “forte come la morte è l’amore” anche loro avevano scelto di viversi quella travolgente passione e di non gettare al vento, di non sprecare, di darle almeno la dignità che quell’amore reclamava.

Con Tempo pieno nel silenzio, Brizio Montinaro ci riconduce alle influenze boccaccesche e alla letteratura erotica di Anaïs Nin e, quindi, ad un universo sognante. Sogni che ben presto si dissolvono per cedere il passo ad una tragica realtà di sofferenza e di morte a causa del Coronavirus. Tempo pieno nel silenzio e mondi paralleli, l’onirico ed il reale che si mescolano, si confondono. Un’imbarcazione veleggia nel mare Egeo a poche miglia dall’isola di Hilos, il sogno sospeso di Nemo, L’origine du monde e la danza selvaggia dell’amore sino alla piccola morte degli amanti. Forse è tutto inventato come nei racconti di Anaïs o tutto vero come nella realtà, ma c’è il tempo per credere, con Stendhal, che davvero la bellezza è promessa di felicità e che dalle ferite, dalle crepe delle nostre esistenze, risplenderà la bellezza come nell’arte del kintsugi.

Un malessere sconosciuto è giunto nella grande casa di Luca e nella sua vita. Cerca un nome al suo disagio, ma non lo trova. In lui il suo Narciso rimane vivo, anche se lo specchio dell’acqua è sempre più vicino. Poi, guardando fuori dal suo ampio balcone, nelle strade senza presenza di un lockdown, un gioco di ombre richiama la sua curiosità. Avvolto nel suo poncho rosso, scorge la sagoma di una donna, longilinea, semi nuda, con una lunga camicia tutta aperta che scompare nel giro di poco tempo, per poi ricomparire nelle sere successive nel rosso dei tramonti che si staglia sulle loro teste. È questo lo scenario del Volo pandemico di Giancarlo Nicolaci.

Nell’inquietudine in cui era stato ricacciato, Francesco decide di compiere, come Winston Smith, protagonista del romanzo 1984 di George Orwell, un atto pericoloso e sovversivo che però lo avrebbe fatto sentire libero : scrivere a mano i suoi pensieri su un vecchio taccuino acquistato a Montréal molti anni prima. Era giunto il momento di fare i conti con la linea del tempo e leggendo il racconto diAlessandro Pernini sapremo se sarà stata Un’occasione mancata.

Sono echi di passaggi e odori da ricostruire i pezzi di mondo che Maria Luisa Petruccelli ci fa scoprire attraverso il suo racconto dal titolo Come chiocciole su sentieri interrotti. È quando si resta chiusi nelle proprie case che si pensa che la marcia trionfale verso il progresso può anche subire una flessione e rivolgere lo sguardo all’essenziale. Nelle pieghe del mondo il dilemma è se Caseggiare o mondeggiare. Nella dialettica del dentro e fuori, dovremmo imparare dalle chiocciole a vivere in noi stessi. Le chiocciole sono carezze rotonde di un mondo che “mondeggia”.

Maria vuole seguire il mito del padre, Paco de Lucía, la musica e la chitarra classica, il flamenco. Dopo la morte del padre prende l’aereo a dalla Sicilia vola a Madrid. Destinazione? A lezione di flamenco (il titolo del racconto di Enza Piccolo) da Consuelo, una donna di origini andaluse che si è da poco trasferita a Madrid. Una volta a Madrid, Maria incontra i colleghi di corso, un americano, Thomas, una giovane turca, Nessrin, e un ragazzo tedesco, Jurgen con i quali condivide anche un piccolo appartamento. Hanno da poco raggiunto un certo affiatamento, quando all’improvviso il flagello della pandemia si abbatte anche sulla città di Madrid e per tutta l’Europa. Mentre il mondo brucia, i quattro ragazzi non rinunciano alla musica e tra di loro sorge anche una certa intimità per resistere alla morte, ma altri fuochi stanno per accendersi.

Il tragico film muto del nostro tempo lo leggiamo lungo le lancette luminose della sveglia che è lì, ferma, a battere i minuti che corrono (gli unici) verso il canonico TG delle 18:00. Il momento della verità, annunciato dall’ennesimo bollettino di guerra. No, non è un sogno, è realtà. La realtà descrittaci dal nostro Alessandro Polidoro. Una veglia senza fine in cui l’unica domanda possibile è quella che dà il titolo al racconto: Dove sono.

L’esperienza del dolore è il momento che nella vita segna la vera crescita. Vivere la sofferenza, individuale e collettiva consacra il passaggio alla vita adulta. Eppure ci si sente di nuovo bambini, persi in uno stato di smarrimento; naufraghi, nel buio di un supplizio imposto a causa di un nemico invisibile. Tutto è sospeso e privo di certezze, solo la luna e le stelle sembrano abitare ancora questo mondo. La distesa di case scure nella notte mi sembrava lugubre. Il mare era un immenso catino di inchiostro nero che non aveva abbastanza carta per farsi scrittura e mentre indisturbata, la bellezza del mondo torna in possesso dei suoi averi scippati dall’uomo, il più vile e meschino attacco proviene dalla stessa umanità. Sono pagine attonite, pagine di rabbia e di impotenza insieme quelle regalateci da Alessandro Romano in Il rumore dell’ignoto.

Maria Sole, è nata il 28 marzo 2020 ed è stata la speranza in mezzo all’angoscia, la forza della vita in mezzo alla devastazione della morte. Lettera a mia figlia di Manuela Romele è un’intensa e appassionata supplica per lasciare traccia di un venire al mondo, travagliato e inaspettatamente drammatico. È il racconto della nascita di una piccola creatura, risultata positiva al Covid-19 sin dai primi vagiti. Maria Sole rinasce una seconda volta, il 18 aprile dello stesso anno quando fa ritorno a casa grazie ai suoi angeli vestiti di bianco che l’hanno curata giorno dopo giorno. È la vita che batte la morte, la guarigione che stende la malattia, relegandola in una scatola nera, in un brutto sogno da dimenticare, affinché il mondo torni ad essere presto un luogo in cui crescere e sognare.

Catapultato nel cielo, il protagonista del raccontoContagiati dall’eterna gioia di Alfonso Santamaria, approda inconsapevolmente in un luogo incantato, onirico, abitato da un’umanità che fluttua, illuminata e sorridente; un luogo immaginario, ma al contempo reale che tocca alla sorte di quest’uomo che incredulo assiste allo spettacolo: Li guardai. Scorsi soprattutto anziani, i quali, scaldati dal soffio della vita eterna e illuminati dalla luce perpetua, avevano volti splendenti più di quanto lo fossero stati nella loro giovinezza. Tale metafisica ed esoterica esperienza si presenta come l’occasione per ripensare alla propria vita trascorsa, alle certezze che la stessa ci ha donato quotidianamente e che sovente non abbiamo saputo apprezzare abbastanza. Un’esperienza che passa necessariamente attraverso la morte per amare la vita, la vita che era data alla masnada di anime galleggianti prima che un maledetto scarto di laboratorio non avesse deciso di farsi un giro per annientare l’umanità.

È una struggente lettera senza risposta con venature dichiaratamente poetiche il racconto di Giorgio Sapegno. Un bacio, il ricordo vivo di una sensazione lontana nel tempo, ma non per questo dimenticata. Poi un giorno una frase letta come il titolo di un manifesto mi ha colpito gli occhi e, da loro, il cuore: Non ricordo più la consistenza di un bacio al primo incontro. Parole che giungono come uno schiaffo, firmate da Tommaso Tronconi. Il calore di un bacio appena dato stroncato da un universo di alienazione irreversibile, quello in cui l’umanità è stata condannata al tempo di questa scrittura che varca la soglia della carta e si fa memoria. Per il futuro, perché non avvenga mai più. Il nostro ieri sarà graffiti ritrovati sui muri dei nostri appartamenti: “guarda… prima vivevamo così”. È un atto d’amore all’amata, alla presenza-assenza della donna che non l’ha mai lasciato, seppure da un altro mondo. Così vicini, così lontani è il sentimento racchiuso in queste parole come un dolcissimo valzer in solitaria, il nostro protagonista non smette di danzare alla frequenza dell’amore.

Una calda sera d’estate, tra le campagne del Cilento, il piccolo guasto alla macchina si rende conforto, salvezza per la protagonista del racconto di Maria Rosaria Selo. L’incontro con un’anziana donna, chiamata da tutti La Samaritana, la conduce in un mondo arcaico fatto di ritualità ancestrali, di profumi dimenticati, di pratiche curative antiche che si svolgono presso la casa colonica della misteriosa signora. Esattamente come la figlia del re di Troia, Cassandra, lungo le pagine del racconto si apprende l’incredibile dote della preveggenza, l’arte profetica ricondotta al celebre personaggio femminile dalla mitologia greca. Quando il prossimo anno spunterà febbraio, un vento malvagio aleggerà su tutti. E non sarà lo spiro freddo dell’ultimo mese d’inverno, ma un alito caldo e anomalo, un soffio terribile! Rosalba la stava avvisando di quello che il mondo serbava dentro sé come una piaga biblica, la sventura che avrebbe colpito l’umanità tutta. Si salveranno in pochi; coloro i quali riusciranno ancora ad abitare poeticamente il mondo.

Nel nome della madre è la toccante lettera sotto forma di racconto di Stefania Squillante che serba in sé il ritorno al passato pur restando nella odierna dimensione temporale. Ci rivedremo, mamma è il ritratto di un rapporto spesso conflittuale – quello tra madri e figlie – ma al contempo necessario e per natura, vitale per la crescita di ogni essere umano. È una promessa che attraversa tutto il tempo di ieri e quello che verrà nel segno di un amore che non conosce misura e che solo il tempo, forse, può restituire in bellezza spazzando via l’ombra di tutti gli antichi dissapori, di tutte le attribuzioni più o meno velate di colpe. Il rapporto con la madre, universalmente parlando non è suscettibile di perdita e queste righe ce lo rammentano non senza emozione: Ci rivedremo, mamma. È questa l’unica certezza che ho e che mi conforta. Non litigheremo più se non per ingannare il tempo, del resto tutti i litigi tra noi avevano quello scopo; non ce ne sarà più bisogno, quando ci ritroveremo il tempo non esisterà più. Ti voglio bene, mamma.

Laila, fa parte di una famiglia che come tutte, tenta di riassestarsi dopo la scossa del lockdown; la convivenza forzata si presentava, di fatto, come una nuova, estenuante, esperienza. Lei, l’amante delle begonie, abituata ad andare per boschi, fu l’ultima della famiglia a capire cosa stesse realmente accadendo fuori. Era la natura la chiave di tutto. E nel tentativo di allentare quella che stava diventando la via crucis della libertà personale decise di ripartire proprio dal verde, prospettando una soluzione green per il benessere collettivo. La quarantena nell’orto di Daniela Volpecina ci dice che le piante hanno un enorme potere terapeutico; Laila lo sapeva bene, ma non le bastava, doveva condividere quell’esperienza rigenerante . E fu così che dopo un iniziale spaesamento, la terra tornò ad essere habitat naturale, le piante una fonte di approvvigionamento, i semi la metafora della rinascita.

di Alessia Guerriero e Paolo Miggiano