Foto di Riccardo Siano

Il viaggio con la Méhari di Giancarlo Siani - Io scendo qui

È trascorso circa un anno da quando, con la casa editrice napoletana, alessandropolidoroeditore.it, abbiamo dato alle stampe il mio libro “NA K14314”. Chi lo ha letto (e sono in tanti) sa che quel numero corrisponde alla targa di un’auto, ma non di un’automobile qualsiasi.

Quel numero è la targa della Méhari che è appartenuta al giovane giornalista de Il Mattino di Napoli Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985. Si fa per dire giornalista, perché quando Giancarlo Siani fu ucciso nessuno gli aveva ancora fatto firmare un contratto e, se non fosse stato ammazzato, probabilmente nessuno lo avrebbe assunto. Giornalista solo da morto, ma quando ti ammazzano in quel modo si fa presto a farti diventare un eroe, anche se eri solo un ragazzo normale.
Il libro NA K14314, che ha per sottotitolo “Le strade della Méhari di Giancarlo Siani”, non è un libro su Giancarlo Siani, ma il racconto di un viaggio. Di un viaggio molto particolare, che in parte ho percorso a bordo di quella piccola automobile. Un viaggio molto entusiasmante tra i giovani, nelle scuole, nelle università, tra i cittadini e nelle più alte sedi istituzionali italiane e comunitarie. NA K14314 è anche un viaggio, a volte immaginario, nella vita e la morte di Giancarlo Siani, ma soprattutto è un viaggio nella narrazione che in questi lunghi anni si è fatta di un ragazzo dal tempo breve. Un viaggio nei successi, nelle speranze, ma anche nelle ipocrisie, nei fallimenti e nelle zone d’ombra. NA K14314 è, quindi, il racconto che non fa sconti a nessuno, soprattutto a coloro che in questi anni hanno tirato per la giacca la memoria di un giovane che voleva fare solo il giornalista. Una per tutte: questa notizia non c’è nel libro, ma mi chiedo come sia stato possibile, al di là delle buone intenzioni dei promotori, inventarsi una pizza che porta il nome di Giancarlo Siani (https://www.ilmattino.it/noi/napoli_pizza_giancarlo_siani-4386975.html).

Le storie esistono se c’è qualcuno che le racconta, ma NA K14314 è una narrazione per la quale non ho alcun diritto d’autore, non fosse altro perché ciò che potevo ricavare da questo lavoro l’ho devoluto al Premio Giancarlo Siani della Scuola di Giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa. Io, con Erri De Luca, non avanzo diritti su quello che scrivo e se mai un diritto mi sarebbe potuto spettare è quello di aver assemblato, montato, messo insieme i pezzi. Si, perché le storie, e quella di Giancarlo Siani non fa eccezione, non hanno proprietà, non sono né dello scrittore, né di chi se ne appropria. Le storie appartengono alla vita e quelle come questa anche alla morte. Una morte assurda.
Sono salito su quella piccola automobile verde nel settembre del 2013 insieme a Roberto Saviano e ad altre personalità della cosidetta antimafia sociale, ma il percorso più vero, più sentito fu quello compiuto in solitudine con l’amico Alfredo Avella, il presidente del Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità. Lo ritenni un privilegio. Cinque anni in viaggio per l’Italia e l’Europa, custodendola con cura - come fosse un oggetto sacro (io che sono un quasi ateo) - e cercando di non tradire la fiducia che mi era stata riposta da chi mi aveva consegnato quelle chiavi.

Ma il primo dovere che cinque anni fa avvertii impetuoso fu quello di non tradire la memoria di un ragazzo così giovane e così generoso e mi accorsi che nonostante girassi intorno alla sua storia da circa trent’anni, di lui non sapevo proprio nulla. Quindi, il dovere di conoscere, di ricercare, di leggere, di studiare, di approfondire, di analizzare, di capire, di mettere in relazione i fatti. Solo così non ho avvertito disagio nel sedermi sul sedile di guida della sua Méhari, per imbracciare quello sterzo che per ironia delle sue scelte da ragazzo libero porta raffigurato proprio il simbolo della pace, quello che si faceva dipingere sulla guancia con un gessetto bianco.
Così ho conosciuto davvero Giancarlo Siani, ma non mi sono mai preso confidenza. Non mi era lecito, non mi era consentito e tra me e lui ho voluto mantenere le distanze. Le distanze del rispetto. E per il rispetto per la sua memoria non mi sono appropriato della sua storia. L’ho solo assemblata e donata a chi aveva voglia di conoscerla meglio, senza alcuna presunzione di possedere la verità. Ed è stato un assemblaggio per niente semplice, soprattutto quando mi sono ritrovato davanti ai dubbi sulla sua morte. In questo lavoro mi sono convinto che i retroscena della morte di Giancarlo Siani non sono stati ancora del tutto svelati e mi sono preso la libertà di farmi domande, molte domande e di scriverle. Ma quel viaggio nelle zone d’ombra – e forse neanche solo quello – non è piaciuto. Non è piaciuto ad alcuni. Ne avevano tutto il diritto, sia bene inteso, ma io la libertà di stampa, di pensiero e di parola non la voglio solo sbandierare o predicare, ma la voglio anche praticare. In ogni caso, leggendo le parole di Amato Lamberti, che fu il maestro di Giancarlo Siani e, oltre a sentirmi in buona compagnia, mi sento apposto con la coscienza.

L’ultimo viaggio con la Méhari di Giancarlo Siani l’ho compiuto nel mese di ottobre del 2018, quando – in occasione del cinquantesimo anniversario dal giorno in cui un aviatore (come lo fui io) francese, eroe della Seconda Guerra Mondiale, Roland de La Poype, inventò l’auto che era più adatta a fare l’amore che la guerra – l’ho condotta al Salone internazionale delle moto e delle auto antiche di Padova. Qui la Citroën ed il suo Centro di Documentazione Storica, hanno generosamente voluto che NA K14314 fosse presentato, insieme ad un volume “CITROËN MHEARI la francese avventurosa” curato da Maurizio Marini, Ilaria Paci e da Fabrizio Consonni, agli espositori venuti da ogni parte d’Europa. Una delle più belle presentazioni di NA K14314 grazie agli interventi di Elena Fumagalli, di Walter Brugnotti (rispettivamente responsabile ed ex responsabile della comunicazione del marchio automobilistico francese) e di Maurizio Marini. Da Padova, grazie al mio interessamento, la Mèhari è stata inviata a Valenza Po, in provincia di Alessandria, nell’officina di restauri storici del Signor Cesare che per conto della Citroën l’ha restaurata. Ne aveva proprio bisogno.

Nell’epilogo di NA K14314 scrivevo:
«[…] Di solito, quando un lavoro di scrittura è terminato, si scrive FINE. Qui, no! Qui termino il mio racconto di un viaggio emozionante. Ora tocca ad altri proseguire. Scrivere altre parole. Cogliere altre emozioni. Qui l’imperativo è continuare a percorrere le strade della Méhari. Proseguire il viaggio. Non fermarsi. Non fermarsi neanche davanti ai dubbi e alle zone d’ombra. Continuare a diradare le nubi, a cercare la verità. Non importa chi sale su questa spiaggina. L’importante è che chi metterà le mani su questo sterzo, le metta con la consapevolezza di far camminare un messaggio, la passione di un’idea. Un’idea di libertà […]».
Nulla, però, è per sempre e quello a Padova è stato l’ultimo mio viaggio a bordo della mitica spiaggina. Ora la Méhari è tornata. Ha preso il suo posto al Palazzo delle Arti di Napoli sulla pedana che tanto amorevolmente la mia amica (e soprattutto amica di Giancarlo Siani) architetto Antonella Palmieri ha realizzato, affinché fosse posta ad un livello più alto da noi terreni, dalle nostre debolezze, dalle nostre presunzioni, dalle nostre ipocrisie. Non chiedetemi perché (forse un giorno lo dirò), ma io scendo qui! Mi fermo qui, ma in quelle zone d’ombra continuerò a muovermi, facendomi domande, a cercando la verità.
È vero, da quell’ auto, come dice la mia amica Antonella, una volta saliti non si scende più. Non si scende più, perché quella maledetta sera di fine estate un ragazzo che aveva paura ci è salito nonostante tutto ... e noi non possiamo lasciarlo più solo. Per questo non abbandono il viaggio, ma faccio solo un passo indietro. Buon viaggio, dunque, sulle strade della Méhari, l’automobile che neanche la mafia ha fermato. Io continuerò a guardare questo viaggio da nostalgico osservatore.
FINE (Forse!).

 

Paolo Miggiano